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Di Gomorra, di narrativa “viscerale” e di rosso sangue

Ho recuperato da qualche giorno l’ultima stagione di Gomorra (l’ultima per davvero, stavolta: dalla produzione ci fanno sapere che non si farà nessuno spin-offreboot).

È da un po’ che ragiono sugli argomenti, le tematiche e gli intrecci che hanno caratterizzato questa produzione italiana destinata a fare scuola nel genere della malavita fiction.

Ma questo non sarà un articolo di stampo sociologico, perché lascerò che sia la mia altra deformazione professionale a farla da padrone: quella della scrittura.

Ogni libro, ogni volume, possiede un’anima: l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto.

Carlos Ruiz Zafòn

La malavita “reale”

Uno dei punti di forza di una serie come Gomorra è, allo stesso tempo, anche il suo punto debole: il raccontare la realtà nuda e cruda.

Essere degli “iperrealisti“, al cinema come in TV, ti espone inevitabilmente a critiche che diventano vere crociate di puro boicottaggio, che spesso partono proprio dalle parti in causa, nel vano tentativo di limitare tutto alla fiction fine a sé stessa.

Ma la camorra è camorra: violenta, spietata, viscerale. E viscerali sono i sentimenti che suscita nello spettatore, che spesso si sente anche in colpa del suo parteggiare per l’uno o l’altro personaggio, giacché è consapevole che non esistano parti per cui tifare in una guerra dove tutti sono carnefici di qualcun altro.

Il regista (e lo scrittore) drammatizza e rende spettacolari eventi che, a ben vedere, non necessiterebbero di alcuna drammatizzazione. La storia e la cronaca non si battono, quanto a spettacolarità: quando si dice che la realtà supera la fantasia, è particolarmente vero se si tratta di malavita.

Raccontare la malavita

Gomorra è una serie che mai, nemmeno per una stagione, ha perso la sua forza narrativa

Ogni fotogramma, ogni dialogo e ogni inquadratura non sono lasciati al caso, ma si armonizzano in una danza intricata dove ogni tessera del puzzle trova il suo triste posto, ingabbiata in una consecutio di eventi che sfuggono del tutto al controllo dei personaggi.

Non è facile raccontare di mafie, soprattutto per chi cerca di farlo mantenendosi ancorato alla realtà pur restando nell’ambito della fiction.

Intrecciare l’aspetto amoroso, relazionale e familiare, oltre che introspettivo, dei personaggi al contesto violento fatto di regole non scritte in cui sono immersi richiede una capacità di analisi macro e una visione d’insieme che non tutti gli autori possiedono.

L’effetto che si ha quando si guarda una serie come Gomorra con occhio critico (e artistico, perché sono sempre stata convinta che noi scrittori siamo un pubblico difficilissimo da soddisfare) è quello che i personaggi vivano di vita propria e che siano, oltre che anarchici, profondamente vittime di eventi da loro stessi innescati, quasi andassero contro anche alle direttive del regista.

Un teatro nel teatro che, molto spesso, lascia l’amaro in bocca: anche se si vorrebbe dare loro un epilogo felice, la tragedia è dietro l’angolo perché i personaggi si sono scritti la loro storia da soli.

Poco importa che tu, autore, te ne stia lì a versare lacrime mentre scrivi cose che fanno male a te per primo (e magari speri di suscitare le stesse emozioni in chi legge… oltre che ricevere messaggi di morte, stile Misery non deve morire, ma questa è un’altra storia).

La scrittura per immagini

La forza di una serie come Gomorra risiede nelle immagini. Nei colori e nei suoni.

Un gioco di luci, una inquadratura su uno sguardo truce, una carrellata su una piazza di spaccio degradata e dai colori desaturati, un vicolo pieno di murales volgari, uno scugnizzo che gioca a pallone, una pistola, il rumore del grilletto, il rosso del sangue.

Una colonna sonora malinconica e martellante, digitale e classica, neomelodica e suburbana, vecchio e nuovo che si fondono.

Pochi dialoghi in dialetto napoletano, frasi metaforiche che restano scolpite nella mente.

“C vulevm magna o munn, ma stu munn sa magnat a nuie”

Genny Savastano – Gomorra, 5 stagione

In un libro non c’è la cinepresa e hai solo le parole e la tua penna per descrivere tutto questo, con le stesse difficoltà e sfide di un prodotto cinematografico “visivo”.

Riuscire a tenere alta la tensione e risultare sempre avvincente è una delle cose più difficili da ottenere, anche e soprattutto se si parla di un genere action che, per antonomasia, è nato proprio per stupire e colpire il lettore.

La verità è che non basta una scena d’azione, un inseguimento, una sparatoria, mirabolanti effetti speciali (ecco, se devo proprio trovare un neo in questa quinta stagione di Gomorra è quel lanciarazzi messo lì totalmente a caso… dai, ragazzi, anche i veri camorristi – ammesso che abbiano guardato la serie – si saranno fatti una grassa risata!) per confezionare un buon action.

I protagonisti sono esseri umani (a meno che non si parli di un fantasy-action, ovviamente) e come tali una narrazione efficace deve partire dalla loro costruzione. Al genere action si chiede verosimiglianza, se non addirittura immedesimazione per quanto, come detto sopra, sia molto difficile empatizzare con uomini e donne che, di buono, non hanno nulla.

Quello che ci fa empatizzare con assassini, spacciatori, criminali capaci di commettere il più efferato dei reati senza provare un briciolo di rimorso, è un qualcosa di atavico e viscerale.

Gomorra è viscerale

Negli sguardi lapidari e il tono di voce roco di Pietro Savastano, nel continuo giocare con gli anelli della mano destra di suo figlio Genny (soprattutto in procinto di tenere un discorso ai suoi sottoposti), nell’occhio cieco e vitreo di Sangueblù, nella postura di Ciro L’Immortale, perennemente col capo chino ma allo stesso tempo ben piantato di fronte ai suoi nemici, leggiamo il potere, la forza, la crudeltà ma anche delle caratterizzazioni vive, vere, spaccate a metà ma tenute disperatamente insieme fino alla fine.

Perché i personaggi di Gomorra sono degli “spezzati” e le loro sono crepe umane.

Mettere in scena dei personaggi sempre perfetti, nettamente divisi in buoni e cattivi, è facilissimo. Basta ricorrere a uno degli (altrettanto immortali) cliché narrativi che noi scrittori ereditiamo dalla notte dei tempi, quella in cui sono nate le prime pièce teatrali greche, le prime opere letterarie, i primi esperimenti artistici di riproduzione della realtà.

Nelle favole di Esopo ci sono molti cliché, questo è vero, e di certo starete pensando che il paragone tra Esopo e Gomorra è alquanto bizzarro, non è così?

Eppure anche quel genere di narrativa è una riproduzione della crudele realtà, dove l’astuzia, l’assenza di regole, i tradimenti, la violenza e la morte sono quasi onnipresenti, se ci pensate bene.

Ma assieme a tutto ciò c’è sempre una morale, una sorta di insegnamento che non è mai un dettame di vita, ma piuttosto una regola generica da personalizzare.

C’è un lieto fine in Gomorra? Chi vince, tra tutti?

Vince la Camorra, e questo non è uno spoiler: è sempre stata lei la vera protagonista, in ogni stagione, sin dalla prima puntata, assieme alle emozioni degli spettatori.

Perché ogni opera letteraria, sia essa su carta, sullo schermo o su una tela, ha due anime. Quella di chi l’ha creata e quella di coloro che la fanno propria.

Maria Antonietta Capasso

Maria Antonietta Capasso

Sociologa, scrittrice e illustratrice freelance, studente di Lettere.
Racconto storie, in parole e immagini: amo esplorare tematiche criminali, sociali e d’attualità, mescolandole a storie d’amore intense e passionali.

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